All'insegna della noia il I concerto della XXVI edizione
Dilettantismo esecutivo dell'orchestra e della solista – Gli strumentisti del nostro Conservatorio conseguirebbero risultati non inferiori consentendo il risparmio, se non del compenso, delle spese di viaggio e di soggiorno
Verona, 4 settembre 2917. - di Sergio Stancanelli
Alle 20.35 di domenica 3 settembre, quando l'orologio del teatro segnava le 20.30, cioè l'orario previsto per l'inizio, ha preso il via nel Filarmonico di Verona la XXVI edizione della stagione "il Settembre dell'Accademia", nata come rassegna internazionale delle più grandi orchestre sinfoniche del mondo, e da qualche anno allargatasi ad accogliere orchestre giovanili ed orchestre locali. Cautelatamente classificata «anteprima», la serata ha visto la presenza di una "Giovane orchestra nazionale turca" diretta dal turco Cem Mansur, dei quali il programma di sala come di consueto riporta lunghe e prolisse biografie e curricula, astenendosi da fosse pur brevi presentazioni delle musiche in programma e dalle circostanze che ne hanno suggerito la scelta (la ricorrenza dello scoppio della seconda guerra mondiale avrebbe potuto essere tenuta presente con la programmazione di pagine tedesche, polacche, francesi ed inglesi).
La prima parte era occupata da musiche russe. Lo schizzo sinfonico "Nell'Asia centrale", più opportunamente noto come "Nelle steppe dell'Asia centrale" (5' ca.), composto da Aleksandr Borodin nel 1880 su commissione d'un Comitato per il 25° del regno di Alessandro II, ha introdotto la serata nell'atmosfera quieta della melodia orientale che su ritmo ostinato ma dolce e sereno – paziente lo direi – accompagna il viaggio monotono e esente da accadimenti di una carovana. Qualche nota approssimata negli a-solo dei fiati ha fornito la cifra d'un'orchestra volonterosa di cui non è facile prevedere i futuri sviluppi.
Il centro attrattivo del programma era costituito dal "Terzo concerto" di Sergej Rachmaninov (37'), la cui parte solistica era affidata alla pianista italiana 24enne Costanza Principe. Si tratta di uno dei più bei Concerti per pianoforte e orchestra che siano stati composti, gareggiante quale inno gioioso alla vita anche col "Secondo" dello stesso autore, ancor più bello ma pensoso e meditativo. Il disinteresse all'ascolto che andavo provando nel corso dell'esecuzione, dapprima attribuito ad una scarsa sonorità dello strumento, mi ha fatto poi ipotizzare che la causa risiedesse nella distanza dalla fonte sonora del posto assegnatomi, precisamente sulla sinistra in fondo dell'ultima fila della platea. Sospettando pretestuosa tale spiegazione, sono stato portato a dubitare d'un mio scemato interesse per la musica sinfonica, dopo decenni di audizione e quando, imparate a memoria le partiture, non ci sono più angoli e recessi che possano rivelarmisi. Ma il dubbio s'è fatto preoccupazione quando mi sono accorto che stavo addormentandomi. S'è fatta strada allora la motivazione vera: tanto l'orchestra quanto la solista stavano dando luogo non ad una sia pur discutibile interpretazione, bensì ad una pura e semplice esecuzione: e mai come in questo caso il termine risulta perfettamente adeguato. La mia opinione ha trovato conferma, dapprima negli scarsissimi applausi – in file intere di poltrone, non v'era un solo spettatore che applaudisse – , di poi negli scambi di idee avuti con i vicini di posto (mi ero recato al concerto in compagnia di un pianista, già allievo di Laura Palmieri) e durante l'intervallo con amici e colleghi: un altro pianista mi ha detto «che noia!», un collega del quotidiano locale «mi sono annoiato», ed io ho dovuto ammettere che mi stavo addormentando. Esclusi dunque la sonorità dello strumento, il mio posizionamento in 19ª fila, un mio scemato interesse per la musica sinfonica, la cognizione a memoria della partitura, l'impressione riportata va addebitata a mancanza ed anzi assenza di vitalità e brio da parte degli esecutori, che ha negato l'apporto di qualsiasi entusiasmo negli spettatori. Bis – non richiesto – il "Momento musicale n.2" dello stesso Rachmaninov.
La seconda parte del programma ha visto l'esecuzione del "Don Giovanni" di Richard Strauss (17') e delle "Variazioni sinfoniche" di Antonín Dvořák (15'), inopportunamente invertiti rispetto al preannuncio. Il poema sinfonico avrebbe potuto costituire la prova generale d'una orchestra intenta a studiarlo, e il suo ascolto risultare interessante qualora la voce del direttore fosse intervenuta a suggerire e correggere, mentre i più sereni accordi delle Variazioni su un tema originale, con la generale pacatezza della partitura, hanno temperato l'astrattezza alquanto caotica della lettura precedente. Bis – non richiesti – l'ouverture da "La forza del destino" di Giuseppe Verdi e la farandola dalla suite "L'arlesiana" di Georges Bizet. Devo l'identificazione dei bis alla cortesia del collega Gianni Villani.
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