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Negare che si cambia è negare parte della propria esistenza

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Monselice, 30 dicembre 2021. - di Adalberto de' Bartolomeis

Egregio Direttore, noi, umani, dotati di capacità cognitiva e del dominio dell'intelligenza, siamo abituati, di fatto, solo quando si diventa adulti, che riteniamo di essere sempre gli stessi. Non è vero. Non è affatto così. Siamo la sostituzione, quasi di noi stessi, ogni dieci anni o addirittura ogni cinque, forse? Si cambia e se non si è convinti di ciò si rifugge da una realtà esistenziale.

Ritengo che la nostra formazione, tutto ciò che attiene alla nostra educazione, al nostro procedere della vita, ci dà la consapevolezza, per ciascuno, di essere quello che siamo, vantando quel carattere che abbiamo, una certa personalità, che è unica, per il temperamento, perché ci diversifica l'uno dall'altro, in sostanza, da dove è partita la nostra esistenza, fino a dove si conclude, ma per fasi della propria vita, subentrano i cambiamenti, non solo fisici, ma interiori.

È così. Bisogna avere consapevolezza nell'umiltà di sapere accettare un semplice stato dell'essere umano che è una condizione antropologica. Sono semplicemente le dimensioni dell'essere, del proprio Io. Quest'ultimo continua ad interagire in maniera determinante, preminente e lo pone al cospetto della stessa esistenza, in una dimensione che deve essere il sapere accettare che si è come un albero, anche se l'albero è anche plurisecolare, l'uomo no.

Il tempo è inesorabile, passa ed inevitabilmente non si può non pensare che non ci si modifichi nel corso della propria vita. Molti di noi non ne vogliono sapere e rifiutano di accettare che sia così: è una realtà biologica della propria esistenza e mai si può pensare di essere quelli di prima, per esempio quelli della bella gioventù o che so, perennemente "quarantenni", incappando, peraltro, anche nella grande fortuna di accumularli gli anni!

Ognuno di noi vive continue sostituzioni di se stessi, del proprio Io. Tanti ne sono consapevoli fino a quando il Padre Eterno lo concede. Solo che, quando ce ne accorgiamo e non tolleriamo che invecchiamo, non invecchia solo la parte esterna, il corpo, ma invecchia tutto: la mente e così anche il proprio carattere. Si, perché se il carattere poteva avere, per esempio, una determinata espansività, una certa giovialità, data da energie fisiche e mentali, o al contrario, chiusura, nelle varie fasi della vita, l'età, quando la stessa è avanzata, decrepita, altro non è che una continua modifica dei propri atteggiamenti, dei propri comportamenti, dei propri modi di agire e dei propri modi di pensare e pertanto lo stesso carattere è una modifica continua.

Semplice. Esistono aspettative mutate, perché cambia tutto e questa tendenza avviene dappertutto, sia in larghe aree geografiche dove esiste, nel complesso, benessere e ricchezza, tra i ritmi divenuti vorticosi e frenetici, di vite persino compulsive, dipendenti da uno stile divenuto esasperato nel sostenere una tendenza persino vitale nel vivere unicamente immersi nel consumismo e quindi in un'essenza di vita materiale, molto individualistica, cosa che tutto l'opposto esiste nelle aree geografiche povere. Là si muore per meno di niente, oltre che per fame e per sete. Se si arriva ad avere la percezione e consapevolezza che tutto ciò presenta, per esempio, una netta separazione e non solo una disparità è già qualcosa. Contrariamente, se la consapevolezza non c'è allora si parla di un'autodifesa volta alla chiusura, o ad una tendenza a vivere da parassiti, per paura e per egoismo, per cui c'è pure l'umiltà che traballa, perché vale di più l'ego di una vita solo egocentrica, atta a cercare di nascondere un'evidenza quasi conclamante: si chiama ipocrisia. Insomma: si può rischiare solo di vivere tutta una vita in una condizione da vili, da codardi, prima per se stessi e poi verso gli altri.

Per gli altri può essere la stessa cosa, perché sono sempre gli stessi e persi nel tempo anche i valori fondanti come il senso etico della propria esistenza, per schianto della sensibilità, di ciò che è moralità, si va avanti per inerzia dello spirito, nel più completo oblìo dell'indifferenza. Tutto ciò avviene nel frattempo, correndo in avanti verso una propria fine, anche se questa volta si è consapevoli della propria corsa e del raggiungimento della definitiva "fermata del tram", della "stazione della corriera", il "capolinea" della vita. Tutt'altro, invece, se non c'è verso di potersi correggere, di ridimensionarsi, di capire, di prendere coscienza e arrivare a porre le modifiche necessarie e quindi riparare dove non si è nel "binario" giusto, subentrano forti eccessi di autostima, esaltati da uno stato d'animo di onnipotenza che altro non sono che l'abisso, la negazione dell'equilibrio mentale e perciò rappresentano, anche i lati peggiori del carattere. Uno dei presupposti di questa vita moderna è la cancellazione dell'idea di Dio e cioè la convinzione che la vita non abbia uno scopo. L'unico impegno reale dell'esistenza è quello di sancire le proprie pulsioni.

Questo genera fenomeni distruttivi. Sta scomparendo il senso verticale della vita, l'ascesa verso qualcosa. Ci resta una vita orizzontale: nascere, morire e qualcosina da consumare in mezzo. Ma non possiamo ridurci così. Ci stiamo adattando a vivere anche circostanze brutte nella continua trasformazione della società. Da tempo siamo pure guidati, schiacciati da forze lobbistiche che non vediamo, ma alimentano paure, tensioni, condizionamenti e dipendenze nella privazione dell'autonomia del proprio pensiero e quindi nel riflettere, ragionare. Alle democrazie cosiddette avanzate non restano che "avanzi"di democrazia: i gesti formali, le celebrazioni portate avanti con sempre più stanchezza e sempre meno convinzione ci stanno portando a liberarsi di Dio.

Ma adesso di questa libertà non sappiamo più cosa farcene. Pur avendo, in una porzione del mondo sconfitto la fame e buona parte delle sofferenze del passato, siamo come marinai naufraghi in un mare apparentemente tranquillo, in una notte senza luna e senza stelle. Non sappiamo dove andare e questo perché viviamo in una "falsa libertà". La libertà è autentica se accompagnata dal senso del limite. L'abitudine di spostare sempre avanti l'asticella del proprio confine, del proprio limite di pensare, del proprio modo di essere e di agire è un vero germe, che ha origini, purtroppo, molto antiche. Può essere interpretato come il complesso di Ulisse: quello di andare a vedere cosa c'è dall'altra parte della terra. Non è una sindrome propria della natura umana, ma un carattere di una vita imbrigliata al progresso normato. Oggi si riduce a volontà demenziale di cancellare ogni capacità, ogni metà: Anche quella corporea. Ci si accontenta così e così si finisce nella megalomania, ponendo in dubbio eccessivo tutto e tutti, naturalmente rifiutando dogmi, verità e conoscenza. Quest'ultima può diventare pericolosa se poi la convinzione del sapere non ha certezze, ma diventano assolute perché si arriva pure a vantarle da autodidatta! Oggi esiste la tendenza di aspettare, ma attendere cosa? Vivere alla giornata, sotto una strana superficie di benessere, costruendo una società orwelliana. Una futura tirannia.

Qualcuno temeva che ci saremmo arrivati per la vecchia strada "totalitaria" o "sovietica", invece ci stiamo arrivando attraverso l'eccesso di individualismo, del "politicamente corretto" e soprattutto per via della cultura dell'indifferenza che alberga in ciascuno di noi. Ci stiamo abituando sempre più al controllo dell'uno e dell'altro, quasi in una sorta di compiacimento nell'assuefarci tutti su cosa si fa, cosa non si fa, perché potremo anche non fare nulla! Anche questa tendenza è un'alternativa.

Solo che, ripeto, in una società come quella dove siamo immersi in tante, troppe sollecitazioni e cioè in società iper connesse, tutte protese solo a "privilegiare" economie consumistiche, non c'è che una vita robotica, materialistica, che infiamma forme d'individualismo esasperanti, al punto da doverci pure subire di controllarci, sospettosi l'uno dell'altro, connaturato al nostro modo di vivere, che lo respiriamo come l'aria. Così, nelle "alte sfere" si sviluppa una violentissima volontà di potenza, mentre ai livelli più bassi siamo immersi in una subordinazione fondata sull'indifferenza.

Questo porta, altrettanto, a una considerazione sempre più bassa anche della propria identità e della propria cultura. Come finirà? Non lo so. Forse, a forza di "ruzzolare giù per le scale prima o poi arriva il pianerottolo", se non ci rimani secco prima. Viviamo immersi nelle crisi, tante e non solo in quella del Covid, per cui servono decisioni forti, ma a patto che il decisore abbia la fiducia dei governati, sempreché lo riescano a capire.

Purtroppo siamo guidati da una bolgia di chi si professa scienziato e diventa burocrate insieme ai burocrati. Sembra quasi di tornare indietro nella Santa Inquisizione, dove agli "stregoni" ci sono "gli iniziati". Se io devo andare in guerra per difendere il mio Paese non solo è obbligatorio, perché rischio per una causa giusta e se vengo ferito lo Stato mi aiuterà dandomi assistenza, o aiuterà la mia famiglia. Adesso invece si sta imponendo un obbligo che potrebbe essere surrettizio perché lo Stato, da parte di chi governa, demanda ad altri il compito d'intervenire per rimediare, senza che ci metta la faccia. Non è forse un vecchio richiamo ad una famosa frase: "armiamoci e partite"?

Negare che si cambia è negare parte della propria esistenza

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