Aosta, 11 luglio 2012. - di Giancarlo Borluzzi
Caro Direttore, stimo Laurent e Dino Viérin perché combattono coerentemente per le loro idee; sono diversi da Andrea Paron che, pur iscritto a un partito statutariamente dichiarante il primato della persona sulla politica, di fatto sposa la supremazia inversa cavalcata dai Viérin perché in tal modo uno diventa assessore comunale alla cultura (ma solo a quella cara ai Viérin!) anziché rimanere consigliere comunale, con i trattamenti conseguenti. Però non condivido, di Laurent, il suo sostanziale isolarsi, con lo stuolo di suoi simili animati da un fondamentalismo localista che dipinge fantasiosamente quanto c'è attorno per poi calarci la propria ideologia, in un maniero turrito dal quale si rivolge alle masse discettando e deliberando su quanto risulta funzionale alla quintessenza del fondamentalismo stesso: questa si chiama propaganda alla Kim Jong-un, piaccia o meno.
L'estrazione, dal cilindro del fondamentalismo predetto, dei corsi di patois e la replica stessa di Laurent Viérin alla mia lettera è un esercizio propagandistico in puro stile nordcoreano. In senso stretto, io criticai l'uscita dell'assessore che esternava un "grande entusiasmo" per le adesioni ai corsi di patois, bypassando il fatto che solo una ridotta minoranza di genitori rossoneri aveva iscritto i propri figli "inconsapevoli" a tali corsi, assolutamente snobbati dagli studenti in età "consapevole". Anziché commentare tale mia analisi numerica che sbolliva il propagandistico "grande entusiasmo", l'assessore ha in questa rubrica esternato la summa teologica del "mondo che termina a Pont Saint Martin".
Summa incapace di afferrare il fatto che la vita va riempita di esperienze che, tecnicamente, richiedono contatti nei quali si utilizzano lingue caratterizzate da sonorità diverse in parti del mondo diverse: ma la vita coincide con le esperienze, non con le lingue. Il fondamentalismo preindicato sottintende che in Valle si parlino effettivamente idiomi di cui solo qualcuno possiede un'infarinatura, tesi comunque ritenuta funzionale al contrapporre una Valle omogenea allo "Stato centralista". E' ameno leggere di un patois utile a integrare le persone: dal maniero turrito non si comprende che la dimensione locale è un abito che sta stretto e scomodo a chi si sente omogeneo a persone dentro o fuori la Valle caratterizzate dal disinteresse più totale verso quella che Viérin chiama storia valdostana, con annessi e connessi.
Chi è vissuto in varie regioni, solo in Valle ha sentito parlare di integrazioni coi cosiddetti locali: interessano le uniformità nel sentire, non l'essere vicini territorialmente. Sui dialetti: conosco alla perfezione friulano e piemontese perchè li ho orecchiati, mentre il patois, che riconosco parlato da una minoranza di italiani della Valle, non l'ho quasi mai sentito. In Friuli a nessuno verrebbe in mente di istituire corsi di dialetto perché il friulano è noto e parlato senza necessità di doping.
In definitiva: i confini regionali sono una delimitazione tecnica che non crea "comunità" imposte per chi ha respiri più ampi e diversi e quindi non deve essere programmato per divenire vettore di "identità" che ritiene anacronistiche.
I genitori che hanno d'imperio iscritto i figli ai corsi di patois hanno anteposto la propria visione politica all'esigenza futura dei figli di essere cittadini del mondo e non cultori di realtà dalle colonne d'Ercole poste a Pont Saint Martin.
Giancarlo Borluzzi