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Avevamo undici anni

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scuolaVerona, 17 maggio 2014. – di Sergio Stancanelli

Un compagno di scuola, Rinaldo Caffarena, mai più visto dal ginnasio, mi legge su Trentino e mi scrive.

Era il primo della classe in italiano, ed ha fatto per tutta la vita il medico in Santa Margherita Ligure.  Lo conobbi, insieme con un'altra trentina di miei coetanei, la prima volta che entrai nell'aula della classe 1ª sezione B del ginnasio Cristoforo Colombo di Genova, sezione distaccata in via delle Fontane che la piazza della Nunziata separava dalla sede principale.

Io finii accanto ad un compagno di banco di nome Poleggi Ennio, che si prese la briga di scrivere cognome e nome (miei), e classe e sezione, sulla sovracopertina in cartoncino azzurro con cui il mio Papà mi aveva fasciato i libri di scuola per meglio sottrarli all'usura. Ero nella fila di banchi di sinistra, dal lato delle finestre; Caffarena Rinaldo era nella fila di centro. Un giorno la professoressa d'italiano, latino storia e geografia, Ada Tristizia Marcora, ci assegnò da svolgere un tema sulla città vecchia: via Prè, porta dei Vacca e l'angiporto. Quando ci riconsegnò i fogli protocollo da lei letti, corretti e valutati, del mio disse «qui non è Stancanelli che scrive», e lesse una frase sgangherata di cui mi ero reso conto ma che non ero riuscito a mettere a posto. Accanto ad un altro periodo, in cui riferivo d'una popolana che dalla finestra getta l'acqua d'un catino nel vicolo, e quando s'avvede che lì sotto sta passando un uomo, gli grida: – Sciù, scià se leve de lì – (Signore, si tolga di lì), ma quello non fa in tempo a spostarsi e l'acqua gli va addosso, - e molta gli andò in bocca - , aveva scritto in matita blu «non è esagerato?». Sì, era esagerato, ed anche mal raccontato, oltre che male inventato. Il voto era 6+.

Giunta a Caffarena, la professoressa disse: «A questo compito ho dato 10 per distinguerlo da tutti gli altri», e lo lesse in classe. Era un piccolo poema letterario squisitamente raffinato, scritto con stile ineccepibile, in un italiano perfetto, meritevole di dignità di stampa. Ricordo ancora la voce della Tristizia Marcora che con commozione arriva a leggere l'ultimo capoverso: – Poi, quando scende la sera... – . Era il migliore, Caffarena, nello scrivere: e ci distanziava parecchio. Nella vita, non ha fatto lo scrittore, bensì il medico, in Santa Margherita, sulla riviera ligure di levante. Fui da quelle parti lo scorso settembre, ma non sapevo che ci vivesse lui. In Bogliasco, vive un altro ex compagno, Gianni Mennella, medico e primario d'ospedali (anche nel cuore dell'Africa) presso il quale proprio in questi giorni dovrei trovarmi, se l'amica con cui dovevo andare, Marilisa, non avesse dovuto subire una operazione chirurgica. In Genova invece viveva sino a poco tempo fa il dottore Pierleone Massajoli, che vi dirigeva la rivista etnografica "Il nido d'aquila", della quale la vedova, Laura Castelli, ha testé fatto uscire un numero postumo: cui si riferisce il dottore Caffarena nell'ultima riga della lettera che mi ha ora indirizzato, scevra come allora da errori di qualsiasi genere, quelli d'ortografia compresi.

Feo, Salvatore, era il professore di matematica. Lo ebbi per otto anni. Catanese, «la matematica è armonia, come la Norma di Bellini» diceva. Usava, con accento siciliano, una fraseologia tutta sua, che Massajoli raccolse in un quaderno intitolato "Feonerie salvatoriane". «Ti do sei ma inghiotto un rospo». «Fai ridere polli, pollastri, galli e galline. Dico polli perché essi sono gli animali più serî che ci siano». «Due ti do, uno per l'andata e uno per il ritorno». Una sera, ero ormai al liceo, Papà mio lo invitò a cena in casa nostra. Io gli recitai alcune delle sue frasi celebri, ed egli mi disse «Non sai quanto piacere mi dai». Poi l'indomani, a scuola, mi apostrofò: «Tu che fai adesso, dopo questa cena non studi più?»

Di quanto io sia sempre stato affetto da stupidità, ho detto più volte. Una estate, Feo mi chiese dove andassimo per le vacanze: a Montesinaro, in quel di Vercelli; e vi venne anche lui. Avrei potuto approfittare nel fargli compagnia per apprendere un sacco di cose ed arricchire le mie cognizioni ed il mio spirito. Invece mi pavoneggiavo d'avere la compagnia di belle ragazze e sdegnavo il vecchio professore sempre solo. Stupido, meschino e presuntuoso. Se si potesse ritornare indietro come con un nastro magnetico!

Cesare era il bidello - uno dei bidelli, l'altro si chiamava Pietro - , e Feo lo mandava a comperargli le sigarette: «Un pacchetto di Macedonia extra col bocchino d'oro». Anni dopo, quand'ero al liceo e non abitavamo più in via Napoli bensì in via Montegalletto, studiavo sino alle 17.40, poi andavo a prendere Papà che usciva dall'ufficio alle 17.45, e s'andava a passeggio sino in centro. Il cannoneggiamento navale fu il 9 febbraio 1941, attorno alle ore 8 del mattino, ero in casa malato. Due le gallerie inframmezzate dalla piazza Portello: Vittorio Emanuele e Umberto primo. Adibite a rifugi antiaerei, vi transitavano tuttavia i tram, e un giorno, rimasto sul predellino (non v'erano porte, sino all'avvento delle littorine) per causa dell'affollamento interno, restai preso e arrotolato fra la vettura e la colonna antischegge: venatura di qualche costola e per venti giorni fasciatura del torace. Ferrante, Giorgio, era un nostro compagno di classe. Un po' prepotente, lo ricordo. Morì, ancora ragazzo, schiantandosi contro un albero mentre sciava a Corvara, in alto Adige. Ferrara, Claudio, sopravvenne in classe seconda, e fu il mio più grande e costante amico, poi compagno di viaggi e collega di lavoro. Noi siamo ancora qui, Caffarena Rinaldo (mi par di risentire l'appello: «Crespi Porro Paolo!»), tu a quota un anno più di me, credo. Con l'intenzione di restarvi ancora a lungo, e la convinzione che ci resteremo per sempre. Ciao, vienimi a trovare, ti ospiterò con gioia.

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La lettera del dottore Caffarena, maggio 2014

Stancanelli Stancanelli,

rileggo con estrema goduria i tuoi ricordi di via Fontane in discesa, dalla Nunziata, verso uno sconosciuto porto in cui non bisognava avventurarsi da soli, verso l'arco misterioso di porta dei Vacca, dove andavo da bambino nello studio del pediatra professor Lanza che mi salvò dalla difterite (quell'anno frequentai poco la classe, ero sempre ammalato, mi promossero anche senza interrogazioni con atto di comprensione).

C'era l'atrio ristretto col soffitto alto e le scale, e la classe aveva le finestre a sinistra con tanta luce ed eravamo su tre file. Ero al centro, con Sertorio, mi spostarono solo per dividere i fratelli Clerici a destra, dietro al piccolo nemeceksiano biondo Enrico Minetti, volenteroso a suggerire dal suo primo banco: provò a suggerire a me alla lavagna per matematica, sui numeri periodici, ma non gli credetti e Feo mi diede se non quaccio, inghiottendo un rospo, almeno una insufficienza. Ero stato troppo assente alle sue lezioni, quando dettava a frasi staccate esattissime regole passeggiando nei varchi tra i banchi, fumando - mapperchè pappatùo i soldi delle tasse non se li fuma in sigarette?

drin, Cesare un pacchetto di nazionali.In fondo tutta la nostra vita era la scuola. Nei pomeriggi, a casa, c'erano i compiti. Mamma, alle cinque, diceva: fatti i compiti? Usciamo, andiamo a vedere le vetrine in via Venti settembre.

Da via Cesare Cabella, piazza Manin. Da dove partivo la mattina per via Fontane col 25 o il 27, o a piedi, in tempo di bombardamenti, scendendo poi da circonvallazione a Monte. Una mattina, dopo il cannonneggiamento navale, tornando con Rossi e suo fratello, scartavamo i dormienti al riparo nella galleria Umberto primo. Presi un ceffone da una ragazza urtata accidentalmente: ma c'era una atmosfera nuova, irreale del pericolo collettivo e del disagio collettivo, senza ottimismo, fatale, superiore alle nostre forze.

Ragazzi, le nostre poche chiare regole di vita erano lì, a risolvere problemi nuovi, per cercare di vivere, e non sapevamo che sarebbe stata la lezione più importante di tutta la nostra vita .

Eravamo ragazzi. La notizia in classe della morte sciando di Ferrante era stato uno stop, incredulo, a sorpresa. Dopo, nella guerra si accoglievano notizie così, con rassegnazione e quasi con fatalità. Non c'era più niente da fare.

Strano, arrivato molto ultraottanta, i compagni nella corsa della vita sono sempre tutti lì, in fila ed io mi adeguo a loro, disposto a parlare con loro, certo con solo i loro cognomi, ma con le frasi e le parole di una volta, così semplici ed aderenti alle situazioni.

Stancanelli Sergio, ti saluto. Uscirò, attraverserò la strada, e imbucherò una lettera.

Ho ricevuto ancora un nido d'aquila.

Ciao

Caffarena

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