Trento, 9 febbraio 2014. – di Luigi Mezzi
Ecco il massiccio del Nanga Parbat, la montagna che si staglia alta verso il cielo fino a oltrepassare le nuvole, al di sopra delle quali gli umani collocano Dio. A nord-ovest la parete Diamir, dove insiste anche una vetta secondaria settentrionale (North Peak), scende lungo il ghiacciaio Diamir proseguendo verso il fondovalle affiancato dagli speroni Mazeno e Ganalo. La base della parete è rocciosa, mentre nelle zone superiori è costituita da grandi ghiacciai.
A nord-est la parete Rakhiot si dipana scoscesa verso nord in direzione del ghiacciaio Rakhiot, circondato dagli speroni Chongra e Jiliper, fino a raggiungere il fondovalle dell'Indo. A sud-est il trapezio sommitale della parete Rupal; estremamente scoscesa, con pendenza costante per circa 4500 metri, domina lo scenario e il sottostante fondovalle. E poi altre pareti verticali proibitive, roccia, ghiaccio, seracchi, nevai, valanghe, nebbia fitta ad alta quota, bufere di neve che si scatenano improvvise spazzando via uomini e cose, vento gelido sferzante, temperature in giugno vicine ai 25 gradi sotto zero. Tutto questo groviglio, vivo, palpitante, inestricabile, di materia divina che s'inerpica prepotentemente verso il cielo, modellata ben oltre le ultime nuvole visibili a occhio nudo, è il Nanga Parbat: la nona montagna della terra, con i suoi 8126 metri, chiamata dagli sherpa himalayani "mangia uomini". E tanto altro ancora, che può condurre l'essere umano alla pazzia.
Ai piedi della montagna "mangia uomini" si pone l'uomo - altrettanto misterioso e imprevedibile -, intenzionato a scalarla per raggiungere la vetta oltre la quale fin dagli albori ha immaginato Dio. Ma l'Ottomila più pericoloso al mondo dopo l'Annapurna, per molto tempo rimasto inviolato, pretende sempre un alto tributo di sangue. Ci provarono senza successo, tra gli altri, Albert Mummery (1895), Willy Merkl (1932, 1934), Peter Aufschnaiter ed Heinrich Harrer (1939). Infine, nel 1953, quando già 31 persone erano morte nel tentativo fallito, il Nanga è passato alla storia come il primo Ottomila raggiunto da un solo scalatore, l'austriaco Hermann Buhl, che partendo dall'ultimo campo compì l'ascensione senza l'uso dell'ossigeno. Venticinque anni dopo, siamo nel 1978, Reinhold Messner riuscì nella straordinaria impresa di effettuare la prima ascensione in totale solitaria partendo addirittura dal campo base, fino a conquistare la vetta dal versante Diamir seguendo una via nuova da lui stesso tracciata. Ma prima di quella data, subito dopo aver conquistato per la prima volta insieme a Günther l'agognata vetta, nel giugno 1970, Reinhold dovette pagare l'alto tributo di sangue richiesto dal Nanaga Parbat: la morte dell'amato fratello minore, travolto da una valanga che lo sorprese nel tentativo di raggiungere durante l'estenuante discesa il campo base dal versante Diamir.
"Mi sono alzato alle due di notte, non avevo sentito la sveglia di mezzanotte. Ero già vestito, cinque strati sotto, sette sopra, mi mancavano solo i soprapantaloni, gli scarponi e la giacca a vento nella quale la sera prima avevo stipato l'essenziale per l'attacco alla vetta del giorno 27". La tenda dell'ultimo campo base posto al margine superiore del ghiacciaio Merkl, a 7200 metri, finalmente si apre. Messner esce dalla fenditura con l'attrezzatura necessaria e inizia la veloce arrampicata che lo porterà in cima al Nanga Parbat: "Mi sentivo benissimo, la quota non mi dava praticamente alcun fastidio. Una calma profonda era scesa su di me". Poi inizia a scalare il canalone Merkl. A dare il nome al difficilissimo, impegnativo, ostico traverso fu purtroppo Willy Merkl. La sua seconda spedizione, nel lontano 1932, finirà in tragedia; quella montagna assassina, imponente altare sacrificale, gli sarà fatale. Anche gli alpinisti Alfred Drexel, Uli Wieland e Willo Weizenbach, sorpresi dalla tormenta in alta quota, persero la vita insieme a sei portatori sherpa.
L'alpinismo estremo richiede coraggio, temerarietà, agonismo, equilibrio psicofisico, disciplina, allenamento, sacrificio, applicazione ma anche una sana, necessaria dose di paura, ossia l'elemento alchemico che ti fa raggiungere il limite massimo senza mai oltrepassarlo. Perché ciò vorrebbe dire precipitare verso la fine dell'esperienza terrena e non poter più compiere la prossima impresa. Messner ha ammesso in diverse occasioni che rinunciare a scalare la vetta, anche se si è a poche decine di metri da essa, non è indice di debolezza bensì di massima consapevolezza dei propri limiti umani. E indica nella paura che non è panico, il sentiero sicuro attraverso il quale raggiungere l'obiettivo. Bisogna perciò essere diversi nella mente, nello spirito, nel corpo atletico, elegante, avvolto in una trama di nervi e muscoli esercitati nella tensione dello sforzo costante.
La parete Rupal, con i suoi 4500 metri, è la parete a strapiombo di roccia e ghiaccio più alta della terra. "Scalarla equivarrebbe probabilmente a un suicidio", scrisse Hermann Buhl. Reinhold Messner crebbe come alpinista nel mito di Buhl: il primo scalatore a raggiungere la vetta del Nanga contravvenendo a un ordine impartito dal temuto Karl Maria Herrligkoffer che, ironia della sorte, guiderà anche la spedizione della quale faranno parte i fratelli Messner. In sole 40 ore, l'austriaco percorse da solo una via assai difficile e impegnativa; colto dall'oscurità all'inizio della discesa, privo del necessario sacco da bivacco, trascorse la notte in piedi aggrappato alla parete a una quota di circa 8000 metri compiendo una delle più grandi imprese della storia dell'alpinismo estremo.